Approfitto di due stimolanti documenti scritti da un amicoe collega e riletti adesso per riflettere a voce alta sul tema.
Togliamo ogni
suspense al tema. La mia percezione è che non si voglia combatterla sul serio.
Da anni sappiamo quanto costerebbe e quanto poco sarebbe lo sforzo economico
necessario per batterla. Un amico e collega da anni si batte per questo e ha messo
nero su bianco una cifra tonda: 1 miliardo di dollari al giorno per salvare un
miliardo di affamati, il tutto per una generazione. Macchinette in mano fanno
365 miliardi all’anno moltiplicati per 25 anni
http://lafaimexpliquee.org/La_faim_expliquee/Un_milliard.html.
Lui sostiene che sia poco, altri amici ribattono che in fin dei conti questo
budget che sembra così impressionante è solo il 20% di quanto si spende per gli
armamenti ogni anno. Ma così facendo restiamo nell’ambito di una discussione
monetaria che alla fine ci porterà ancora una volta a chiedere la carità a chi
ha i soldi, Fondi privati, Transnazionali e Miliardari alla Warren Buffet. Se
non si riesce a far tirar fuori un misero 0.37% del PIB alla maggior parte dei
paesi OCSE per rispettare gli impegni presi e ripresi mille volte in materia di
cooperazione allo sviluppo, non si capisce proprio da dove dovrebbero saltar
fuori quei soldi. Restando dentro il paradigma produttivo attuale, non se ne
esce fuori.
Ricordiamo che
fin dal primissimo dopoguerra venne messo nero su bianco il diagnostico del
perché c’era fame vera nel Nordest del Brasile. Josué de Castro pubblicò il suo
libro la“Geografia della Fame” (lo
potete ancora trovare su Amazon con la prefazione di Carlo Levi: http://www.amazon.it/Geografia-della-fame-CASTRO-Josu%C3%A8/dp/B00BGT46RW).
Un libro che in molti, forse troppi, non hanno letto e non vogliono leggere.
Eppure de Castro (nessuna parentela col nostro ex-Ministro chiariamoci bene)
non era e non sarebbe mai stato un comunista. Pericoloso sì lo era, e forse
proprio perché non era comunista ma proveniva da quella stessa borghesia che
creava e manteneva quelle condizioni strutturali che poi diventavano fame. La
sua conclusione fece tremare i polsi a molti, sia in Brasile (dove più tardi
gli venne tolta la cittadinanza, tanto da farlo morire in esilio a Parigi) che
altrove, era molto semplice: per combattere la fame bisogna cambiare le strutture
agrarie. La parola tabù, riforma agraria, veniva pronunciata. Diventata poi una
bandiera di tanti arruffapopoli, oggigiorno se ne è perso anche il colore. A
chi ripete che la riforma agraria è roba da comunisti, bisognerebbe rinfrescare
la memoria, e ricordar loro che furono gli americani, repubblicani, ad imporla
ai giapponesi, taiwanesi e coreani alla fine della seconda guerra e che da lì,
da una più equa distribuzione delle risorse basilari, mise piede il miracolo
orientale dei decenni successivi. Ricordiamo anche che in Italia fu la
Democrazia Cristiana, con la faccia di De Gasperi, a far approvare la legge di
riforma agraria, col voto contrario del partito comunista. Bando ai ricordi.
Ritorniamo a noi e alla corta memoria storica. Le strutture agrarie sono oggi
in peggior stato di quello che erano agli inizi degli anni sessanta quando una
ventata di rivoluzioni e indipendenze fece sognare che qualcosa potesse
cambiare sul serio. Allora erano tutti d’accordo, anche gli americani, che
bisognasse finirla con strutture arcaiche degne del medioevo e modernizzare.
Oggi, sembrerebbe esser finiti in una situazione tipo Bar Casablanca (Gaber): https://www.youtube.com/watch?v=Re7mzbvFY-w
Al bar Casablanca
seduti all’aperto
una birra gelata
seduti all’aperto
una birra gelata
Guardiamo le donne
guardiamo la gente
che va in passeggiata
guardiamo la gente
che va in passeggiata
Con aria un po' stanca
camicia slacciata
in mano un maglione
camicia slacciata
in mano un maglione
Parliamo parliamo
di proletariato
di rivoluzione
di proletariato
di rivoluzione
Al bar Casablanca
con una gauloise
la Nikon gli occhiali
con una gauloise
la Nikon gli occhiali
E sopra una sedia
i titoli rossi
dei nostri giornali
i titoli rossi
dei nostri giornali
Blue jeans scoloriti
la barba sporcata
da un po' di gelato
la barba sporcata
da un po' di gelato
Parliamo parliamo
di rivoluzione
di proletariato
di rivoluzione
di proletariato
L’importante, è che l’operaio prenda coscienza, ad esempio i comitati
unitari di base, guarda gli operai di Pavia e di Vigevano, non hanno mica
permesso che la politica sindacale realizzasse i suoi obbiettivi, hanno
reagito, hanno preso l’iniziativa.
Non è che noi dobbiamo essere la testa degli operai, sono loro che devono fare, loro.
Noi..
Non è che noi dobbiamo essere la testa degli operai, sono loro che devono fare, loro.
Noi..
Al bar Casablanca
seduti all’aperto
la Nikon gli occhiali
E sopra una sedia
i titoli rossi
dei nostri giornali
i titoli rossi
dei nostri giornali
Blue jeans scoloriti
la barba sporcata
da un po' di gelato
la barba sporcata
da un po' di gelato
Parliamo parliamo
di rivoluzione
di proletariato
di rivoluzione
di proletariato
Se non peggio, perché
almeno al bar Casablanca parlavano parlavano… ma qui manco più quello.
Nove anni fa
provammo a rimettere in vista la parola magica… facemmo anche una Conferenza
sulla riforma agraria in Brasile. Uscimmo di lì tutti contenti, i Movimenti
sociali in primis… vennero a congratularci, … poi provammo a tradurre quella
spinta in un qualcosa di concreto, almeno in quei paesi dove si poteva sperare
qualcosa… ma ci fermarono e di quel momento non si sentì più parlare.
La fame è sempre
lì, possiamo cambiare le stime, ma la quantità di gente affamata è sempre
troppa. Se poi ci aggiungiamo la povertà di chi sta un po’ sopra la soglia
della fame, rischiamo di trovarci la metà della popolazione mondiale.
Spostare la
discussione dalle variabili strutturali alla variabile monetaria, personalmente
mi preoccupa, mi fa pensare all’aria dei tempi, quando si vuol moneta rizzare anche
madre Natura. Faccio sicuramente parte di una scuola vecchia, dove si pensava
che se non si cambiano le variabili strutturali non riusciremo mai a venirne
fuori. E d’altronde i contadini l’hanno capito prima di noi.. andandosene dalle
campagne ci stanno dicendo che se la questione della struttura agraria deve
sempre restare quella di una volta, con pochissimi che comandano e tantissimi che non possono dire nulla,
allora tanto vale andarsene in città.. almeno lì riusciranno magari a far paura
ai piccoli borghesi e far sì che i governi gli diano almeno l’elemosina.
Lo so che il mio
amico non pensava a questo, ma devo ammettere che mi preoccupa questo
slittamento semantico. Se la ragione è che oggi non ci sono le condizioni politiche
per proporre un cambio strutturale, una vera riforma agraria, allora io dico:
lavoriamo per costruirle, tanto se è questo l’argomento non ci sono ancor meno
le condizioni per creare un nuovo fondo da 365 miliardi all’anno per 25 anni. Dar
loro i soldi vuol dire ammettere che lo Stato ha abdicato alla funzione
democratizzatrice. Al non riuscire a rendere più uguali le condizioni di produzione (in
campagna ma, ovviamente, il discorso vale anche per tutti i salariati ovunque
si trovino) vuol dire ammettere che le lotte per i diritti non sono servite e
che alla fine vince l’homo economicus individuale. Tutto il contrario di quello
per cui lottavamo.
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