lunedì 27 luglio 2015

Ma sta fame la vogliamo combattere sul serio o no?

Approfitto di due stimolanti documenti scritti da un amicoe  collega e riletti adesso per riflettere a voce alta sul tema.

Togliamo ogni suspense al tema. La mia percezione è che non si voglia combatterla sul serio. Da anni sappiamo quanto costerebbe e quanto poco sarebbe lo sforzo economico necessario per batterla. Un amico e collega da anni si batte per questo e ha messo nero su bianco una cifra tonda: 1 miliardo di dollari al giorno per salvare un miliardo di affamati, il tutto per una generazione. Macchinette in mano fanno 365 miliardi all’anno moltiplicati per 25 anni  http://lafaimexpliquee.org/La_faim_expliquee/Un_milliard.html. Lui sostiene che sia poco, altri amici ribattono che in fin dei conti questo budget che sembra così impressionante è solo il 20% di quanto si spende per gli armamenti ogni anno. Ma così facendo restiamo nell’ambito di una discussione monetaria che alla fine ci porterà ancora una volta a chiedere la carità a chi ha i soldi, Fondi privati, Transnazionali e Miliardari alla Warren Buffet. Se non si riesce a far tirar fuori un misero 0.37% del PIB alla maggior parte dei paesi OCSE per rispettare gli impegni presi e ripresi mille volte in materia di cooperazione allo sviluppo, non si capisce proprio da dove dovrebbero saltar fuori quei soldi. Restando dentro il paradigma produttivo attuale, non se ne esce fuori.

Ricordiamo che fin dal primissimo dopoguerra venne messo nero su bianco il diagnostico del perché c’era fame vera nel Nordest del Brasile. Josué de Castro pubblicò il suo libro  la“Geografia della Fame” (lo potete ancora trovare su Amazon con la prefazione di Carlo Levi: http://www.amazon.it/Geografia-della-fame-CASTRO-Josu%C3%A8/dp/B00BGT46RW). Un libro che in molti, forse troppi, non hanno letto e non vogliono leggere. Eppure de Castro (nessuna parentela col nostro ex-Ministro chiariamoci bene) non era e non sarebbe mai stato un comunista. Pericoloso sì lo era, e forse proprio perché non era comunista ma proveniva da quella stessa borghesia che creava e manteneva quelle condizioni strutturali che poi diventavano fame. La sua conclusione fece tremare i polsi a molti, sia in Brasile (dove più tardi gli venne tolta la cittadinanza, tanto da farlo morire in esilio a Parigi) che altrove, era molto semplice: per combattere la fame bisogna cambiare le strutture agrarie. La parola tabù, riforma agraria, veniva pronunciata. Diventata poi una bandiera di tanti arruffapopoli, oggigiorno se ne è perso anche il colore. A chi ripete che la riforma agraria è roba da comunisti, bisognerebbe rinfrescare la memoria, e ricordar loro che furono gli americani, repubblicani, ad imporla ai giapponesi, taiwanesi e coreani alla fine della seconda guerra e che da lì, da una più equa distribuzione delle risorse basilari, mise piede il miracolo orientale dei decenni successivi. Ricordiamo anche che in Italia fu la Democrazia Cristiana, con la faccia di De Gasperi, a far approvare la legge di riforma agraria, col voto contrario del partito comunista. Bando ai ricordi. Ritorniamo a noi e alla corta memoria storica. Le strutture agrarie sono oggi in peggior stato di quello che erano agli inizi degli anni sessanta quando una ventata di rivoluzioni e indipendenze fece sognare che qualcosa potesse cambiare sul serio. Allora erano tutti d’accordo, anche gli americani, che bisognasse finirla con strutture arcaiche degne del medioevo e modernizzare. Oggi, sembrerebbe esser finiti in una situazione tipo Bar Casablanca (Gaber): https://www.youtube.com/watch?v=Re7mzbvFY-w

 Al bar Casablanca
seduti all’aperto
una birra gelata

Guardiamo le donne
guardiamo la gente
che va in passeggiata

Con aria un po' stanca
camicia slacciata
in mano un maglione

Parliamo parliamo
di proletariato
di rivoluzione

Al bar Casablanca
con una gauloise
la Nikon gli occhiali

E sopra una sedia
i titoli rossi
dei nostri giornali

Blue jeans scoloriti
la barba sporcata
da un po' di gelato

Parliamo parliamo
di rivoluzione
di proletariato

L’importante, è che l’operaio prenda coscienza, ad esempio i comitati unitari di base, guarda gli operai di Pavia e di Vigevano, non hanno mica permesso che la politica sindacale realizzasse i suoi obbiettivi, hanno reagito, hanno preso l’iniziativa.
Non è che noi dobbiamo essere la testa degli operai, sono loro che devono fare, loro.
Noi..

Al bar Casablanca
seduti all’aperto
la Nikon gli occhiali

E sopra una sedia
i titoli rossi
dei nostri giornali

Blue jeans scoloriti
la barba sporcata
da un po' di gelato

Parliamo parliamo
di rivoluzione
di proletariato

Se non peggio, perché almeno al bar Casablanca parlavano parlavano… ma qui manco più quello.
Nove anni fa provammo a rimettere in vista la parola magica… facemmo anche una Conferenza sulla riforma agraria in Brasile. Uscimmo di lì tutti contenti, i Movimenti sociali in primis… vennero a congratularci, … poi provammo a tradurre quella spinta in un qualcosa di concreto, almeno in quei paesi dove si poteva sperare qualcosa… ma ci fermarono e di quel momento non si sentì più parlare.
La fame è sempre lì, possiamo cambiare le stime, ma la quantità di gente affamata è sempre troppa. Se poi ci aggiungiamo la povertà di chi sta un po’ sopra la soglia della fame, rischiamo di trovarci la metà della popolazione mondiale. 

Spostare la discussione dalle variabili strutturali alla variabile monetaria, personalmente mi preoccupa, mi fa pensare all’aria dei tempi, quando si vuol moneta rizzare anche madre Natura. Faccio sicuramente parte di una scuola vecchia, dove si pensava che se non si cambiano le variabili strutturali non riusciremo mai a venirne fuori. E d’altronde i contadini l’hanno capito prima di noi.. andandosene dalle campagne ci stanno dicendo che se la questione della struttura agraria deve sempre restare quella di una volta, con pochissimi che comandano  e tantissimi che non possono dire nulla, allora tanto vale andarsene in città.. almeno lì riusciranno magari a far paura ai piccoli borghesi e far sì che i governi gli diano almeno l’elemosina. 

Lo so che il mio amico non pensava a questo, ma devo ammettere che mi preoccupa questo slittamento semantico. Se la ragione è che oggi non ci sono le condizioni politiche per proporre un cambio strutturale, una vera riforma agraria, allora io dico: lavoriamo per costruirle, tanto se è questo l’argomento non ci sono ancor meno le condizioni per creare un nuovo fondo da 365 miliardi all’anno per 25 anni. Dar loro i soldi vuol dire ammettere che lo Stato ha abdicato alla funzione democratizzatrice. Al non riuscire a rendere più  uguali le condizioni di produzione (in campagna ma, ovviamente, il discorso vale anche per tutti i salariati ovunque si trovino) vuol dire ammettere che le lotte per i diritti non sono servite e che alla fine vince l’homo economicus individuale. Tutto il contrario di quello per cui lottavamo.